Licenziamento e danno da ritardo nella reintegrazione

 In Diritto del lavoro

Cosa fare quando il datore di lavoro non rispetta l’ordine del Giudice di reintegrazione dopo il licenziamento?

Accade spesso che un lavoratore, pur forte di un ordine del Tribunale di reintegrazione sul posto di lavoro, si scontri contro il muro del datore di lavoro, che gli oppone un rifiuto a riprenderlo in servizio, pur pagandogli regolarmente la retribuzione.

Prima di dirti cosa è utile fare, è bene chiarire cosa è inutile tentare.

Non serve quasi mai denunciare il datore di lavoro per il reato di cui all’art. 388 c.p. (“Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice”).

La giurisprudenza è ferma nell’escludere la sussistenza di un reato “commissivo” nel non dare esecuzione all’ordine di reintegrazione (Cass. Sez. Lav. n. 6777/2015).

Poi, se vi è il regolare pagamento della retribuzione (il che presuppone una “reintegrazione contabile”), è pressoché superfluo chiedere al Giudice, ex art. 669 duodecies c.p.c., le modalità di attuazione della misura reintegratoria.

Invece, ciò che può concretamente indurre il datore di lavoro a reintegrare il dipendente è che quest’ultimo ricorra al Tribunale per chiedere l’accertamento di un maggior danno, ulteriore rispetto a quello già previsto dall’art. 18 St. Lav.

Il maggior danno.

Danno ulteriore che gli deriva dal ritardo nella reintegrazione e dalla conseguente inattività forzata.

Ciò, infatti, può far sorgere lesioni alla professionalità del lavoratore (si pensi alla mancanza di formazione e aggiornamento, soprattutto per i lavoratori con qualifica più elevata) oppure lesioni alla salute psico-fisica e alla vita di relazione.

Tale danno ulteriore non è mai “in re ipsa”, cioè avrà sempre bisogno di precise allegazioni e dovrà essere provato (anche presuntivamente).

Un tale processo potrà condurre il Giudice del Lavoro a riconoscere, anche in via equitativa, un congruo risarcimento.

Esso potrà essere commisurato alla retribuzione mensile globale di fatto (intera o parziale), moltiplicata per il numero di mesi di inattività forzata, successiva all’ordine di reintegrazione (Cass. Civ. Sez. IV, n. 9073/2013).

Di solito, questa “mossa” può portare il datore di lavoro, sempre giustamente sensibile “alla tasca”, a rivedere le sue scelte.

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